Eleonora Barmasc

Io sono l'Universo e l'Universo è in me

“Poesie brevi” La curatrice degli incontri coi lettori

Dalla presentazione di Silvana Alessandria curatrice degli incontri coi lettori.

Dovrei presentare la raccolta poetica di Eleonora Barmasc. Il verbo al condizionale, dovrei, manifesta una mia percezione, un mio dubbio circa l’adeguatezza dei termini presentare e raccolta poetica. E’ la prima volta che avverto questo disagio linguistico e ne spiego il motivo: presentare implica il classificare, l’incapsulare un’opera letteraria individuandone precise caratteristiche; raccolta poetica rafforza il verbo presentare con un’etichetta che inquadra, seleziona mettendo in rilievo certi elementi ed escludendone altri, è una cesura limitante, restrittiva, assoluta. Proprio manifestando l’insufficienza delle parole incapaci di rendere, in tutta la sua originalità, l’opera di Eleonora già entro nel suo mistero, nella sua disorientante bellezza, nella sua straordinaria profondità.
Einstein scrisse: “La cosa più bella che possiamo provare è il mistero delle cose” ed io aggiungo di un libro, delle persone, del mondo. Proviamo dunque ad indagare, insieme ad Eleonora, il mistero di queste poesie brevi ricordandoci che possiamo solo approssimarci al mistero, così come alla verità, e che non sarà mai possibile possedere completamente il mistero e la verità imprigionandoli in barriere linguistiche refrattarie al dubbio e tali da inibire il processo conoscitivo, il desiderio di sapere e di arricchire la propria mente ed il cuore.
E’ necessario rispettare la distanza dal mistero, dalla verità e dal segreto per rifuggire da affrettate semplificazioni e da conclusioni drastiche, perentorie: la poesia di Eleonora è libertà, è incertezza, è qui ed altrove, è vicina e lontana, è mondo.
Permette timi una digressione che mi consentirà di chiarire in parte ciò che ho appena affermato e, contemporaneamente, di accostarmi al testo poetico di Eleonora; mi soffermerò su due punti: lo scrivere e lo scrivere in versi di Eleonora.
Perché si scrive?
Nell’introduzione al libro “Verso un sapere dell’anima” di Maria Zambrano così si legge: “Lo scrivere, a differenza del parlare, non è dettato da urgenze e sollecitudini esterne, da circostanze assedianti da cui la parola ci libera, ma solo momentaneamente e che subito dopo torneranno ad assillarci; è una vittoria continua apparente che nasconde una profonda sconfitta” (…) “E da questa sconfitta intima, umana, non di un singolo uomo, ma dell’essere umano, nasce l’esigenza di scrivere (…). Scrivere è il contrario di parlare; si parla per soddisfare una necessità immediata e parlando ci rendiamo prigionieri di ciò che abbiamo appena detto, nello scrivere invece si trova liberazione e durevolezza (…) Salvare le parole dalla loro esistenza momentanea, transitoria e condurle nella nostra riconciliazione verso ciò che è durevole, questo è il compito di chi scrive”.
Che cosa vuol dire lo scrittore o il poeta?
“Vuol dire il segreto, ciò che non si può dire a voce perché troppo vero, le grandi verità non si è soliti dirle parlando”.
La poesia è segreto parlato che deve essere scritto per fissarsi, le cose che non si possono dire bisogna scriverle per trattenerle e per confrontarsi con la loro vibrante magia.
La parola detta e la parola scritta: siamo sommersi dalle parole, troppe parole, una bulimia di parole che per il troppo uso sono ormai sbiadite, consumate, logore, banalizzate; si disperde il loro significato originario, è opaca, quasi annullata l’armonia dei suoni linguistici. Le parole sono offese da semplificazioni, luoghi comuni, parole morte; purtroppo questa semplificazione tocca anche il pensiero che perde in profondità, in ricchezza, in problematicità e trasmette una visione del mondo unilaterale, semplificata appunto, superficiale non sapendo cogliere la straordinaria complessità del reale.
Ci sono due modi per affrontare i pensieri che sono comunque le parti infinite di un pensiero sconosciuto, segreto, il famoso segreto di cui parla M. Zambrano; la prima modalità è quella dell’indifferenza, della incapacità o non volontà di intuire, di avvicinarci ad una verità o comunque di intraprendere un percorso verso la verità; l’altro modo è caratterizzato da una forma di sensibilità, vedi il dire poetico di Eleonora, che ci fa sentire, respirare, intravedere questa verità con la consapevolezza però che non la incontreremo mai compiutamente.
Nietzsche scrisse: “Le cose sono i limiti dell’uomo” ma le cose hanno voce per merito ed attraverso la poesia e lo vediamo in questo libro.
Le parole di Maria Zambrano confermano con autorevolezza ciò che è stato appena detto: “Il poeta esprime con la propria voce (consegnata alla parola scritta) la poesia, il poeta ha sempre voce, canta e piange il segreto.”
Quale sarà la natura di questo segreto? Un segreto personale o universale? Entrambe le cose, ognuno di noi possiede qualcosa di nascosto, di intimo, di privato connotato da moti alterni di felicità e tristezza, da dolori e gioie, da dubbi e certezze, da speranze e delusioni, da sentimenti contrastanti, ambivalenti, spesso insondabili. Dunque è vera l’affermazione che il parlare solo apparentemente ci libera da una sofferenza, da un malessere, da un timore; il parlare può anche manifestare uno stato di benessere proiettandolo fuori, all’esterno: i frammenti di questi vissuti così diversi rimarranno comunque dentro di noi ed è per questo che si ha una vittoria fittizia della parola detta; è lo scrivere come atto di fedeltà verso ciò che “chiede di essere tratto fuori dal silenzio” che mi permette di ricomporre il tutto, di dare ordine e consistenza al mio pensare. Attraverso la parola scritta posso confrontarmi con il mio mondo interno, posso cercare di far chiarezza sul mio essere nel mondo, sul mio rapporto con gli altri, sul senso del nostro esistere, anche su un evento contingente, una piccola cosa che ho pensato di risolvere con la parola detta.
La parola detta è utile, terapeutica, è vero, ma in un altro contesto, con altri scopi ed altre finalità.
Un esempio personale, io preferisco scrivere piuttosto che parlare, anche se adesso lo faccio, ma prima ho scritto: sento che scrivendo attribuisco una forma ai miei pensieri; davanti ad un foglio bianco e con una biro in mano, non davanti al computer, la mia mente comincia a lavorare “lascio parlare le idee” come direbbe Hillman studioso americano, morto di recente, e le idee si allargano, si integrano, si armonizzano oppure entrano in contrasto con le mie convinzioni, con le mie esperienze pregresse o quotidiane, con quelle che credevo inoppugnabili certezze: mi avvicino al mistero, al segreto del mio essere nel mondo ed al mio rapporto con il mondo.
Con la parola detta crediamo di renderci liberi dalla circostanza assediante, vinciamo il momento ma subito dopo ne siamo vinti.
“Da questa sconfitta nasce la scrittura” dice M. Zambrano.
Allora torniamo alla domanda, segreto personale che è stato delineato per sommi capi o segreto universale?
E’ un discorso difficile che è stato affrontato da studiosi con orientamenti teorici diversi; da parte mia, seguendo le suggestioni della poesia di Eleonora credo esista un segreto universale che potrebbe essere intravisto nell’unione fra esseri umani, natura, cose, segreto cosmico. “Lo scrittore scaglia fuori di sé, dal suo mondo, e quindi dall’ambiente che può controllare, il segreto trovato (…) però il segreto si mostra allo scrittore senza rendersi spiegabile, non smette cioè di essere un segreto per lui prima che per chiunque altro”: ancora M. Zambrano.
Noi forse possiamo approssimarci al mistero, al segreto della nostra esistenza senza mai possederlo totalmente pena l’inevitabile chiusura in limitate rassicuranti certezze, infatti il segreto è tensione verso la voglia di conoscere, di sapere, di sperimentare, di mettersi in gioco.
Proprio il segreto intravisto è la cifra della scrittura di Eleonora e, parafrasando Eraclito, vorrei ancora aggiungere che la sua poesia non dice tutto e non nasconde: indica.
Con questo termine inizia la seconda parte: lo scrivere poetico di Eleonora; tenterò di avvicinarmi con delicatezza al suo linguaggio lirico che è proprio un indicare attraverso le parole, il ritmo delle parole, la musicalità delle sillabe in un gioco di separazione e di ricomposizione, di armonia e di contrasto.
Indicare non è imporre, non è circoscrivere, non è delimitare o tracciare confini, non è chiudere il pensiero nel perimetro rassicurante del noto; indicare è un appello alla nostra libertà di guardare o voltarci dall’altra parte, di aderire al significato della composizione poetica, libertà di condividere il percorso di conoscenza che mi propone l’autore, libertà è anche e soprattutto opporre altri pensieri, altre idee, altre immagini mentali, altre emozioni suggerite, è vero, dalla lettura, ma non necessariamente simili o uguali a quelle degli altri lettori in un livellamento monotono ed improduttivo.
E’ proprio la differenza delle nostre convinzioni e del nostro soggettivo, intimo riconoscersi o meno in quei versi poetici che onora e rispetta la libertà della persona.
Il linguaggio poetico di Eleonora è un abbraccio che accoglie, ma non opprime, dove i confini fra essere umano, natura, fenomeni della natura e cose si dissolvono per creare un’unica realtà: il mondo. Non troverete dunque titoli che delimitano, descrizioni di paesaggi, di persone, di oggetti, non troverete sentimenti esibiti, memorie e ricordi cristallizzati in forme immutabili bensì l’unitarietà del tutto; della poesia del poeta polacco Zagajewski è stato scritto che la sua opera è il desiderio di “ricomporre l’immagine in un mondo ridotto in frammenti apparentemente privi di senso”. Queste parole ben si adattano al dire poetico di Eleonora come esigenza di accostarci all’ambiente ed al nostro prossimo nella totalità di un unico organismo vivente; i singoli elementi si differenziano è vero l’uno dall’altro, ma sono legati da un’anima universale, l’anima del mondo.
Detto così appare un concetto un po’ troppo filosofico e noi non siamo qui per parlare di filosofia, però questo legame, questo filo teso fra tutti gli esseri viventi, uomo e natura, non potrebbe essere il segreto universale di cui ho parlato in precedenza, il mistero, la tensione che ci sostiene nella ricerca del senso del nostro esistere e per nutrire la speranza che non siamo puro caso ed alimentare inoltre la fiducia che la nostra vita non è soltanto il tragitto programmato fra nascita e morte, in mezzo ed al termine esiste l’altrove?
La parola scritta è strumento di scavo, di indagine, di svelamento; la parola scritta è dare voce all’anima a condizione di affidarci al flusso dei pensieri, della coscienza e dell’immaginazione; i pensieri non vanno trattenuti, ma lasciati scorrere liberi, ariosi perché solo in questo modo il poeta può fare anima attraverso l’immaginazione detta in parole.
Che cosa significa fare anima? Per me è scoprire il legame che mi unisce al mondo (uso questo termine per riferirmi agli uomini, alla natura, alle cose, agli accadimenti grandi o piccoli che costellano la nostra vita); fare anima è anche una modalità di rapportarmi all’ambiente, alle persone, alla quotidianità, è un legame relazionale, di amicizia.
La quotidianità spesso diventa abitudine consolidata, azioni sempre uguali, un rituale che soffoca la fantasia e l’immaginazione, una inerzia del vivere o meglio del lasciar vivere.
Francesco Donfrancesco scrive “L’anima è quel luogo di provenienza, quel fondamento inviolabile e lontano che si manifesta come memoria (…) memoria che dà forma alle immagini esprimendo così la nostra antichità, la trama delle nostre storie”. Non è il movimento lineare dei processi intellettivi causa-effetto, è un moto circolare perché il nostro io è mosso quasi sempre dalle stesse motivazioni, dagli stessi desideri, dagli stessi ricordi; ma questo è vero per tutti, quante volte ripensiamo alle stesse cose, alle stesse sofferenze, agli stessi sprazzi di felicità ed ogni volta accumuliamo sensazioni ed immagini diverse in una circolarità incessante e creativa. Non è come avere il mal di testa, causa, assumo un farmaco, effetto, e talvolta il dolore scompare, non sempre: il nostro mondo interiore non funziona così.
Anche questo movimento circolare troviamo nelle poesie di Eleonora che ci conducono al fare anima attraverso appunto l’immaginazione e con una forma linguistica particolare di cui dopo parlerò.
Sono barlumi d’anima, bagliori di luce intensi e di breve durata, sfavillii intermittenti che svelano fugacemente il mistero della nostra esistenza: a noi lettori è richiesto uno sforzo attentivo e percettivo per cogliere quel frammento di mistero affidato ad un breve istante luminoso.
Il discorso di questa compenetrazione fra umano e natura non significa certamente l’annullamento della nostra individualità, anzi ne sottolinea la straordinaria valenza.
Nell’opera di Eleonora trovate una poesia che parla della ghianda per dire che ciascuna persona è portatrice di una unicità che chiede di essere vissuta pienamente e “che è già presente prima di poter essere vissuta” (Hillman); si può condividere o meno questa affermazione, ma la teoria della ghianda sottolinea la singolarità di ciascuno di noi talvolta a noi stessi ignota perché chiusa nel guscio della ghianda e che si manifesta in certe occasioni, straordinarie per noi, banali per gli altri; significative per gli altri, indifferenti per noi. Le ghiande sono dunque tutte diverse anche se frutti dello stesso albero e possiamo chiamarle destino? Possiamo chiamarle anima? Possiamo chiamarle legame cosmico? A noi il tentativo di suggerire risposte. Anche Eleonora però sarà intervistata su questo ed altri argomenti.
A questo punto due parole sullo stile poetico di Eleonora dettato o meglio permeato da questa particolare concezione del mondo dove dominano i termini anima – legame – unità fra le creature – mistero.
Come dissi in precedenza la sua poesia sfugge a qualsiasi rigida classificazione, può avvicinarsi per analogia e somiglianza ad altre composizioni e sentirete quali, ma non ne sarà mai assorbita completamente: manterrà intatta la sua originalità.
Compare dunque una forma linguistica che troviamo in scrittori famosi, ricordo Proust con il suo “tintinnio ovale e dorato” e vi spiegherò di che si tratta, ma che usiamo anche noi nel nostro linguaggio comune. Ad esempio “Ho scoperto un profumo morbido”, “In quella stanza c’è una luce talmente fredda”, “Questa musica è di una dolcezza”, “Voce carezzevole”, “Parola tenera”, “Chiaro silenzio”, “Gesto aspro”. In queste frasi c’è una mescolanza di esperienze sensoriali relative alla vista, all’udito, al tatto. Si può dire che un colore è rumoroso, che un suono è luminoso, che un sapore è pallido?
Immaginiamo che uno spillo ci punga una mano: definiamo questo dolore come una nota di contrabbasso o come una nota di violino?
Il tintinnio ovale e dorato: il tintinnio lo senti, ovale e dorato lo vedi. Questa forma linguistica mette in rilievo la nostra capacità di cogliere corrispondenze fra percezioni provenienti da canali sensoriali diversi; l’opera d’arte, in questo caso la poesia di Eleonora, integra immagini mentali e percettive differenziate e denota una non comune sensibilità estetica: la lettura di queste poesie diventa coinvolgente, affascina, trascina verso la pura e limpida bellezza, svela la magia delle parole, sostiene la tensione verso l’ignoto e verso il mistero che ci unisce al mondo.
Mi piace concludere queste mie personali riflessioni affermando ancora una volta come le poesie che ascolterete riflettono la fiducia e la speranza nell’esistenza di un rapporto armonioso di rispetto, di stima, di riconoscimento del valore di tutto il creato pur con ambiti di appartenenza diversi: esseri umani, natura, piante, animali, oggetti, cose, simboli di memorie passate, di affetti, di emozioni e di profonde ed intense amicizie, figuriamoci se non concludo con la parola amicizia!
Vi lascio un pensiero di Holderlin come sintesi di ciò che è stato detto: “E’ bene sorreggersi agli altri, poiché nessuno sostiene da solo la vita”.